Sono passati quasi due mesi dall’apertura di Di Terra e di Cielo.
Penso che riflettere su ciò che si è fatto, sui segnali ricevuti, sugli eventi accaduti in relazione alle nostre azioni sia importante tanto quanto agire, quindi in queste giornate sto cercando di ripercorrere e raccogliere i momenti trascorsi finora dentro e fuori dall’aula, per scorgervi i messaggi che mi hanno consegnato e consegnano e mettere a frutto le indicazioni in essi contenute.
Gli stimoli sono stati tanti e sento che hanno bisogno di restare ancora un po’ ingarbugliati, come si è spesso all’inizio di un nuovo tratto di cammino. Ma c’è un pensiero di fondo che mi accompagna e che voglio tenere presente e consegnare a queste righe. È il pensiero che rivela lo spunto iniziale di tutto questo. Lo è stato forse in modo non del tutto consapevole e per esprimerlo prendo in prestito le parole dall’incipit di un libro di Riccardo Prando, dal titolo che sembra piuttosto aggressivo, Contro la scuola:
la scuola nasce dall’incontro tra due libertà che si guardano in faccia e si dicono: “Tu sei un bene per me”.
Qualcuno potrebbe osservare che il doposcuola non è una scuola. Forse invece lo è, certamente in modo diverso dalla scuola istituzionale a cui siamo abituati a pensare.
Più avanti, a p. 15 del suo libro, Prando riprende un passaggio del vocabolario Treccani e definisce la scuola luogo del “libero e piacevole uso delle proprie forze, soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno e scopo pratico” (in realtà questa non è la definizione di scuola proposta dal vocabolario, ma l’etimologia. Mi propongo di tornare su questo spunto più ampiamente in una prossima occasione).
Nelle due citazioni che ho riportato sento un contenuto molto forte: ‘tu sei un bene per me’ e ‘libero e piacevole uso delle proprie forze’.
Nel pensare e dar vita a Di Terra e di Cielo ho cercato di essere il più possibile accogliente, di fare i compiti prima, elaborando una traccia di lavoro per lasciare poi le porte aperte a quello che i bambini che lo frequentano avrebbero voluto mettervi in gioco con il ‘libero e piacevole uso delle proprie forze’, esponendo ogni proposta, ogni momento al rischio del rifiuto. Può sembrare insensato. A me pare molto più insensato forzare una direzione invece che suggerirla e garantire la guida e la compagnia che servono, nel momento in cui servono.
Sto scegliendo di permettere ai bambini di Di Terra di Cielo (e spero anche a tutti gli altri) di essere un bene per me. E questo potrebbe non ‘andarmi sempre bene’.
Mia figlia Matilde fa parte del gruppo, è una delle cinque piccole della compagnia, che giocano alla scuola davanti alla lavagna. In questi sei anni di vita insieme ho sempre saputo il bene che le voglio, ma non è sempre stato chiaro che lei è un bene per me e io un bene per lei. ‘Voler bene’ ed ‘essere un bene’ sono due locuzioni diverse. Indicano cose diverse.
Uno per uno, mia figlia e i bambini che mi sono stati affidati sono un bene per me in modi che sto scoprendo giorno per giorno, parola per parola, strillone per strillone, gioco per gioco. Attraverso le loro gioie, curiosità, opposizioni, rifiuti, ricerche raccontano una storia che non è sempre facile ascoltare. Ma senza ascolto come sarebbe possibile accoglierla, comprenderla, continuare a scriverla insieme?
Altre esperienze sono state più facili. È stato più facile muoversi all’interno di una struttura, nelle aule scolastiche, dove qualcun altro aveva deciso quale e quanto tempo sarebbe stato dedicato a un’attività obbligatoria. In qualche modo i miei pomeriggi sono un fare i conti in modo sistematico con l’imprevedibile.
In questo apparente scarabocchio cerco di essere un bene. È qualcosa in più di ‘fare del bene’ o di ‘fare bene’, che ritengo essenziali.
Quello che si vede è quello che faccio o non faccio, le attività che propongo e quelle a cui non dò attenzione, le storie, i pasticci, il caos nell’aula, lavoretti senza un apparente perché, i tavoli e vestiti sporchi di tempera, teli tesi dappertutto, la voglia di stare lì e finire quello che sto facendo e magari iniziare qualcosa di nuovo. Tutto questo potrebbe potrebbe anche essere diverso.
Quello che invece credo non possa essere diverso è ciò che si nasconde e che prende forma nelle relazioni che si stanno creando, nel portare l’attenzione sul linguaggio che usiamo (e sulla sua incredibile, a tratti sconfortante, vaghezza), sul modo in cui stiamo insieme, sulle reazioni che abbiamo, sulle incomprensioni che punteggiano le ore tra le 16 e le 18.
Di Terra e di Cielo è tante cose, e non è molte altre.
Credo di essere molto vicina al vero se dico che è un grande esercizio di ascolto. Ed è questa l’arte a cui sto cercando di avvicinare questi bimbi, nei disegni e nelle costruzioni, nei lavoretti (e poi perché lavoretti?), nei tentativi difficili di creare qualcosa insieme, nel non potersi contenere, nel litigare perché nella mia casa di sedie e stoffa tu non puoi entrare e io non ti voglio e mi dà fastidio che ci sei.
È l’arte di essere disposti a fare silenzio in sé, a fare un passo indietro e a permettere alle voci – esteriori ed interiori- che chiedono attenzione di emergere.
È ambizioso, forse non ci riusciremo.
Ma vale la pena tentare, vale la pena tentare di essere bene per un altro.
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